STORIA DELL'AZIENDA

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Il 19 febbraio 1819 Vittorio Emanuele I ordinava che «... l’ingrandimento della città di Torino avrà luogo dalla contrada di Po sino al fiume». Con la realizzazione della piazza Vittorio su iniziativa di Carlo Felice, la costruzione del ponte e della monumentale chiesa Gran Madre di Dio, inaugurata il 20 maggio 1831, prende la sua forma urbanistica il Borgo di Po, quarto ingrandimento di Torino.

In questo contesto si inserisce nel 1835 un modesto carradore di trent’anni, Guglielmo Diatto, arrivato da Carmagnola, piccolo centro agricolo piemontese. Affittato dal conte Francesco Gay un piccolo tratto di terreno sulla sponda destra del Po, apre una bottega per la fabbricazione di ruote per carrettoni. Questo rappresenta l’atto costitutivo di quella che diventerà la grande fabbrica Diatto. Soltanto nel 1861 Guglielmo Diatto acquista dal conte il terreno e la casa “siti al di là del Po in Strada Piacenza” per lire 69.000 con atto notarile del cinque maggio, rogato Guglielmo Teppati.

Già in quegli anni l’azienda acquisisce una certa importanza; nelle guide dell’epoca appare come “fabbri­cante di carrettoni”. Un anno più tardi, l’8 ottobre 1862 vengono eseguiti i primi importanti ampliamenti su progetto dell’ingegnere Saverio Avenati, seguiti da altri nel settembre 1863, sotto la direzione dell’architetto Luigi Formento.

Le officine sono in piena espansione quando, il 16 ottobre 1864, Guglielmo Diatto muore all’età di ses-sant’anni. Il testamento datato 6 settembre istituisce eredi universali i quattro figli, Vincenzo, Giovanni, Giovanni Battista e Pietro, lasciando la quota legittima alla moglie Anna e alle figlie Teresa, Angela, Giuseppa e Rosa. La discendenza femminile consolida il patrimonio ai quattro fratelli con atto del 31 gennaio 1867.

È in quest’epoca che entra in scena Giovanni Battista Diatto, considerato da tutti il fondatore dell’indu-stria tra le più prestigiose del mondo per la costruzione di materiale ferroviario. Il 1º settembre 1868 la ditta assume la denominazione sociale di Fratelli Diatto e continua la sua espansione lungo il fiume Po: gradual-mente vengono acquistati altri terreni tanto che le officine si estendono dal ponte Vittorio Emanuele al ponte in ferro Maria Teresa.

Ormai la Diatto è una grande fabbrica; dalla iniziale produzione di carri è passata alla costruzione ferro­viaria, diventando fornitrice della Società Italiana Strade Ferrate del Mediterraneo, della Società Nazionale di Ferrovie e Tranvie di Roma, della Compagnie des Wagons Lits et des Grands Express Europeéns de Paris.

Il 10 agosto 1880 muore Vincenzo, celibe, designando eredi universali la madre, i fratelli e le sorelle. Quattro anni dopo, il 14 settembre 1884, scompare anche Pietro. Per ragioni di comproprietà, gli stabili e i terreni situati in Borgo di Po vengono assegnati in eredità ai due fratelli rimasti.

Il 23 luglio 1889 Giovanni e Giovanni Battista Diatto risolvono la società costituita fra loro e procedono alla divisione del comune patrimonio consistente nei terreni con le costruzioni entrostanti a uso industriale e d’abitazione nel Borgo di Po di ettari 2.457. Con questa cessione Giovanni Battista Diatto diventa padrone assoluto della fabbrica, rilevando la quota del fratello per la somma di lire 590.000.

Il 4 marzo 1899 la Fratelli Diatto si trasforma in Società Anonima Officine già Fratelli Diatto, con capita-le sociale iniziale di lire 3.600.000, alla quale Giovanni Battista Diatto, che rimane presidente, cede lo stabile e terreni del Lungo Po per lire 1.145.000. Direttore tecnico della società è l’ingegner Dante Ferraris, suo genero.

Con la costruzione del nuovo ponte Umberto I sul Po, dedicato dalla città al sovrano ucciso a Monza, il Comune delibera il 3 febbraio 1909 l’esproprio con dichiarazione di pubblica utilità di una parte dello stabilimento Diatto. Fin dal 1899 la Diatto ha iniziato l’acquisto di campi e prati in zona Crocetta e nel 1912 riesce a ottenere l’acquisizione degli stabili e aree della fabbrica di automobili Itala che le consentono il trasferimento dell’azienda alla barriera di Orbassano con sede in via Rivalta 15.

Contemporaneamente Giovanni Battista Diatto a settant’anni si ritira dall’attività, lasciando la presidenza della società al genero ingegner Ferraris che, dopo alcuni anni di proficua attività dell’azienda, stipula un accordo di fusione della Società Anonima Officine già Fratelli Diatto con la Fiat. L’intesa viene sottoscritta il 23 aprile 1918 con atto notarile, rogato Torretta e la Diatto assume la denominazione di Fiat Sezione Materiale Ferroviario.

Termina così, dopo ottantatré anni, l’esistenza della Diatto nata sulle rive del Po, ma questo nome continua a vivere nel settore automobilistico grazie ai figli di Giovanni Battista Diatto. I fratelli Vittorio e Pietro, nipoti di Guglielmo, concludono il 12 aprile 1905 un accordo fra la loro ditta – Ingegneri Vittorio e Pietro Diatto-Fonderie Officine Meccaniche Costruzioni in Ferro –, e la Société des Établissements Adolphe Clément-Automobiles Bayard con sede a Levallois Perret (Parigi), per la fabbricazione di vetture marca Torino su licenza Clément. Nasce così la Società Automobili Diatto-A. Clément con capitale sociale di lire 1.500.000, di cui 450.000 versate e durata fino al 30 settembre 1935.

Lo stabilimento sorge a Torino su un’area di 30.000 mq tra le vie Fréjus, Cesana, Revello e Moretta: la forza installata è di 90 HP fornita da tre motori a corrente trifase azionanti circa 200 macchine utensili, alle quali attendono 500 operai. La sede sociale viene stabilita in via Fréjus 21.

L’anno successivo vengono presentati alla stampa i modelli marca Torino 12/16 HP, 20/24 HP a quattro cilindri, 8/10 HP e 10/12 HP di 1.884 cc a due cilindri.

Nel 1906 al Concorso Milano-Sanremo, una Diatto-Clément 10/12 HP condotta da Giovanni Gagliardi conquista il primo posto di categoria e il secondo nella corsa sul chilometro; al Concorso Herkomer una vettura di 20/24 HP è premiata con Targa e Medaglia d’Oro. Felice Buzio con una Diatto-Clément 12/16 HP guadagna il Gran Premio della Città di Bologna, mentre Gregorio Vercellone al volante di una 20/24 HP vince numerosi premi alla Coppa d’Oro del Turismo. Nel 1907 appaiono i modelli marca Torino a quattro cilindri 14/18 HP di 2.724 cc, 20/25 HP di 3.770 cc e 25/35 HP di 4.846 cc, con una produzione che ben presto raggiunge e si stabilizza sui 250 esemplari annui.

Sono momenti intensi, anche Umberto Boccioni, il pittore del movimento futurista, nell’autunno del 1907 si è trasferito a Milano col proposito di documentare, come scrive nel diario, “... il frutto del nostro tempo industriale”.

Il 1º settembre Boccioni è al Circuito di Brescia e nota: «Mi sembrava di vedere gli eroi nuovi! Sarà vero? Certo che in quelle corse meravigliosamente fantastiche c’era l’idealità eterna della conquista». Due settimane prima l’Arena di Milano ha raccolto i vincitori del raid Pechino-Parigi, che più di tutte le corse serve a potenziare in Italia il culto dell’automobile. L’idea di questo viaggio fascinoso, che in certa misura ripete alla rovescia quello di Marco Polo, è venuta al direttore del quotidiano Matin quasi per scherzo e la sfida è stata accettata da 25 macchine, che però alla partenza si sono ridotte a 5 – tre francesi, una olandese e una italiana – soprattutto per le difficoltà economiche: 2.000 franchi di tassa da versare al giornale, il trasporto dell’automobile e del materiale a Pechino, le spese dei rifornimenti lungo il viaggio. C’è tra i partenti un triciclo Contal, pilotato da un certo Pons, che presto è costretto ad abbandonare.

La nostra macchina è l’Itala del principe Scipione Borghese che la pilota, accompagnato da Ettore Guizzardi, autista meccanico e factotum e da Luigi Barzini, il re dei nostri giornalisti, che ha veste di inviato speciale del Corriere della Sera e del Daily Telegraph. Il principe Borghese, uomo assai preciso, punta sul consisten­te; la sua vettura, anche se alleggerita di tutto ciò che non è essenziale alla marcia, pesa 20 quintali; egli giudica di superare col peso più facilmente le difficoltà dei territori privi di buone strade e i fatti gli danno ragione.

Alle ore 7 e 30 del 10 giugno 1907 Guizzardi dà il giro di manovella e avvia il motore. Alle ore 8 si parte. Il primo servizio Barzini lo telegrafa da Pong Kong, dopo la Grande Muraglia e il deserto dei Gobi: è il primo telegramma che parte da quell’ufficio, che pure ha sei anni di vita.

Le difficoltà e gli imprevisti sono quotidiani, occorre guadare fiumi e torrenti, affrontare la steppa senza strade e gli Urali. Quando un cerchione si schianta, si deve ricorrere agli artigiani del luogo per farne uno nuovo. Sui giornali europei arrivano scarse notizie, il che è fonte di fosche illazioni, perfino di quella che il triciclista Pons e il suo meccanico siano stati mangiati dai cannibali. Il ritorno a Parigi è trionfale, dopo Mosca e la Siberia tutto diventa più facile; banchetti e discorsi nelle ultime tappe. L’Itala precede le macchi­ne rimaste in gara di qualche migliaio di chilometri.

È il 10 di agosto, 60 giorni esatti per compiere sedicimila chilometri su questo itinerario: Pechino, il Gobi, il lago Baikal, Omsk, gli Urali, Novgorod, Mosca, Pietroburgo, Berlino, Liegi, Parigi. La dura prova che le balestre, le sospensioni, il motore, le gomme e i freni hanno affrontato e superato danno prestigio e coraggio all’industria italiana.

La Domenica del Corriere dedica ben due copertine al Raid. Nella seconda è riprodotta l’accoglienza che all’Arena, il 16 agosto, più di trentamila milanesi riservano all’automobile vincitrice.

Anche la Diatto fa tesoro dell’esperienza e prepara una vettura per il durissimo raid San Pietroburgo-Mosca che parte il 18 maggio 1908. Al via ventotto vetture, ne arrivano solo nove; la Diatto n. 25 di Primaversi si classifica sesta. Sono queste prove estenuanti che portano nuove esperienze e la fabbrica si indirizza con la sua produzione verso automobili consistenti e dotate di buoni freni.

Ne è un esempio la 25/35 HP del 1907, di 4.846 cc, che dapprima si avvale della trasmissione a catena e dal 1909 torna come negli altri progetti al sistema cardanico. Anche se di prezzo decisamente superiore a tutti i precedenti modelli (16.500 lire), questa vettura avrà un rilevante successo e verrà costruita fino al 1910.

L’anno prima, il 30 giugno 1909, i fratelli Vittorio e Pietro Diatto rilevano la partecipazione di Adolphe Clément e la denominazione sociale della Casa cambia in Fonderie Officine Fréjus. Da questo momento tutte le vetture prodotte recano sul radiatore il famoso marchio ovale Diatto con sfondo rosso, marchio che non ha mai mutato foggia sino alla chiusura della Casa e che tanto onore si è conquistato sui circuiti di tutto il mondo.

(Diatto fondata nel 1905, usa il suo marchio ovale dal 1909 e lo registra il 5/6/1919. Bugatti usa il suo marchio ovale dal 1911, anno della fondazione e lo registra il 1/5/1925.Va precisato che il marchio ovale Diatto è stato utilizzato sin dal 1909 e depositato all’ufficio brevetti il 5 giugno 1919; il marchio ovale Bugatti, risalente al 1911, che al suo deposito, avvenuto il 1º maggio 1925).

Non passano molti mesi che viene costruito un nuovo motore di progettazione autonoma e originale, un monoblocco a quattro cilindri di 2.049 cc, con una potenza di 15 HP e cambio a tre marce più retromarcia.

Con la guerra di Libia, i conflitti balcanici che ne derivano e la conseguente prima guerra mondiale, la rivoluzione industriale giolittiana riesce a superare la fase di stanchezza che attraversa alla vigilia e a com­pletarsi. Con le guerre, nuovi orizzonti si aprono all’industria dei motori e metalmeccanica in genere. Neicieli della Libia sono apparsi i primi aerei da ricognizione e i primi bombardieri. È un modo per assorbire nella vita quotidiana il progresso, rompendo il nesso demoniaco che ancora sembra unire la macchina all’uo-mo.

A metà del mese di agosto del 1905 un grosso rischio corre la regina Margherita. Quattro pastorelli vedono il mostro – è lo Sparviero, l’auto decapottabile su cui è solita viaggiare la regina madre, seguita da una seconda vettura, l’Allodola –, scendere veloce dalle montagne della Val d’Aosta, lanciando bagliori sinistri e infrangono a sassate i suoi quattro fanali: la macchina finisce a livello di un burrone, però non precipita, un vero miracolo. «Poteva essere» – commenta l’Illustrazione Italiana –, «un disastro; non fu, per fortuna, che un innocuo incidente». Margherita è rimasta immobile, fissando la medaglia d’oro di San Cristoforo che porta sempre con sè e che da quel giorno diventa, dietro suo suggerimento, patrono degli automobilisti.

Nel 1908 è l’auto del sovrano che, partita da Racconigi e diretta a Piacenza, causa una strettissima e non segnalata curva della strada, rotola in un fossato; l’anno dopo otto padovani in gita, nella discesa di San Marino, forse per un guasto ai freni, precipitano in uno strapiombo; nel 1910, in un autodromo in Francia, il torinese Giuppone, per evitare due ciclisti, sbanda e si uccide; tre anni dopo, presso Savona, una potente vettura investe due buoi.

1910, Diatto aerodinamica da record 15,9 litriIn questo contesto non certo luminoso per l’automobile, nel 1910 la Diatto presenta sul Circuito di Brooklands in Inghilterra la sua vettura “aerodinamica”, spinta da un poderoso motore di tipo aeronautico di 15,9 litri che la dice lunga sulle intenzioni della Casa. Nel 1911 avvia la produzione di una nuova vettura, la Tipo Unico 16 HP con un motore monoblocco di 2.212 cc e cambio a tre marce.

Nel 1912 questo progetto modifica la denominazione in Tipo Unico 18 HP: la cilindrata passa a 2.413 cc, il cambio torna ad avere quattro rapporti e nel prosieguo degli anni, fino al 1915, varieranno solo i valori di passo, carreggiata anteriore e posteriore e peso totale.

Già da qualche anno le vetture Diatto corrono e vincono in molte durissime gare dell’epoca, imponendosi come Eugenio Silvani il 21 giugno 1914 sul circuito toscano San Pietro a Sieve-Scarperia- Giogo-Fiorenzuola-Passo della Futa-San Pietro a Sieve, di 65 km da percorrere quattro volte.

L’intervento bellico del maggio 1915 travolge in Italia le remore psicologiche nei confronti del motore, mostrandone le possibilità immense. Tra l’ottobre del 1911 e il gennaio del 1912, Gabriele D’Annunzio ha inneggiato all’impresa di Libia, pubblicando sul Corriere della Sera le “Canzoni delle gesta d’oltremare”, mentre da Parigi, Marinetti, in “Guerra igiene del mondo” esalta «... le formidabili sinfonie degli shrapnel e le folli sculture che la nostra ispirata artiglieria foggia nelle masse nemiche». Per fare le “folli sculture” e per volare su Trento e su Vienna occorre l’industria, e anche per dotare gli eserciti di automezzi. La guerra contro l’Austria li ha requisiti tutti per coprire le “seconde linee” del fronte essendo le ferrovie, fatte secondo un criterio puramente difensivo, assolutamente insufficienti. I 3.400 automezzi, di cui l’autorità militare median-te le requisizioni dispone, sono pochi e sono in concorrenza con i muli, cui vengono lasciate le zone più avanzate e impervie. Delle nuove commesse la Fiat fa la parte del leone con il camion militare 18BL.

Attraverso questa esperienza, il Paese si convince che lo sviluppo dell’automobile rappresenta una neces­sità, dal momento che la configurazione geografica della penisola rende arduo, più che in altri Paesi, l’incre-mento delle linee ferroviarie e tranviarie ed è indispensabile predisporre una complementare, fitta rete di trasporti automobilistici: nel 1910 i gestori privati delle linee pubbliche sono 62 per una lunghezza comples­siva di tremila chilometri, che si sviluppa a 8.377 nel 1912 e a 11.751 al 30 giugno 1914. Subito dopo l’armistizio del 1918 si dà corso a duecento nuove concessioni per una lunghezza di seimila chilometri, con assegnazione alle linee sussidiate di benzina a un prezzo politico inferiore a quello di mercato.

Tra ausiliarie e non, l’Italia nel 1924 conterà su cinquantatremila chilometri di linee automobilistiche, cui vanno aggiunti i servizi di “gran turismo” con itinerari occasionali prestabiliti e i servizi “stagionali”, che agevolano le comunicazioni per le stazioni climatiche e di cura.

E così, nel 1915, allo scoppio della prima guerra mondiale, anche la Diatto inizia la produzione degli autocarri leggeri, derivati dai telai delle autovetture, che per tutto il periodo bellico danno prova di robustez­za e grande affidabilità. Nello stesso anno viene inaugurato in via Moretta a Torino un nuovo reparto di carrozzeria, mentre vengono acquistati altri due complessi, gli stabilimenti John Newton di Torino e Scacchi di Chivasso.

Il 17 marzo 1916 viene acquistata la maggioranza del pacchetto azionario della Société des Moteurs Gnome et Rhône, che assume da questo momento la nuova denominazione di Società Italiana Motori Gnome et Rhône, cui viene demandata la costruzione dei famosi motori aeronautici 8 cilindri, in collaborazione con Bugatti, sotto il controllo diretto della stessa Diatto. È di questo periodo anche la produzione di altri due modelli, il 20/25 HP di 2.724 cc e il 30/40 HP di 3.969 cc, ambedue con motori a quattro cilindri verticali.

Nel 1916 anche Enzo Ferrari, con il fratello Alfredo, acquista una Diatto di colore rosso e, come ricorda nelle sue memorie, scrive: «Alfredo andò volontario in guerra, era il periodo nel quale i volontari della Croce Rossa venivano arruolati se portavano anche l’automobile. La Diatto 4 cilindri Torpedo rossa che avevamo acquistato partì con lui per trasportare feriti dal fronte agli ospedali dell’interno».

La guerra ha inciso profondamente anche sulla classe operaia. Nel luglio del 1915 la Critica Sociale, la rivista socialista fondata e diretta da Filippo Turati, segnala, tra le storture che sono prodotte dal conflitto, la conseguenza psicologica che è derivata dal fatto di abituare l’operaio per anni a produrre per la pura distru­zione. «Quali ripercussioni» – si domanda la rivista –, «avrà questo fatto anormale sulla vita economica e finanziaria del dopoguerra?».

Il conflitto invece è una pacchia per l’industria metalmeccanica italiana, i preventivi di ciò che occorre per la guerra sono fatti in base ai costi delle vecchie officine di artiglieria che sono male attrezzate e male organizzate, costi quindi passibili di guadagni enormi per chi sappia organizzarsi una lavorazione in serie; ed è per la classe dirigente un’occasione per rompere l’avanzata del movimento operaio. La Fiat, per citare una delle maggiori industrie belliche, realizza utili di bilancio dell’80%, che le permettono di moltiplicare per sette il capitale sociale e per dieci il numero dei dipendenti.


A guerra conclusa la Diatto subisce un’ulteriore trasformazione: nel 1918 infatti assume la nuova denomi­nazione sociale di Società Anonima Fonderie Officine Fréjus Automobili Diatto. L’anno successivo diventa Società Anonima Automobili Diatto, conferendosi una nuova struttura che la porterà nel 1920 a trasferire da Torino a Roma la sede sociale, anche per seguire più da vicino le difficili pratiche di riscossione del debito di oltre sei milioni di lire – l’equivalente oggi di oltre 300 miliardi –, maturato dallo Stato per la fornitura del materiale bellico da parte della Gnome et Rhône; debito che non sarà mai onorato e che procurerà gravi disagi economici all’intero complesso industriale.

Le fabbriche europee, colpite in pieno petto da una riconversione bellica non prevista e mal assorbita, devono fare i conti con una tragica scarsità di denaro, con la cecità di governi che continuano a ritenere le automobili “inutili, indecenti e ridicole carrozze”, con strade la cui angustia e il cui fondo non tollerano velocità superiori ai trenta o quaranta chilometri l’ora, e infine con un vizio d’origine dell’automobile stessa, che potrebbe chiamarsi la “sua sponsorizzazione aristocratica”: fin dal principio, sono stati i marchesi, i duchi, i principi, perfino i membri delle famiglie reali a possedere e guidare le costosissime veterane e tutte le loro discendenti: anche ora, nel 1928, Ferdinand Porsche, il geniale costruttore, dice sprezzantemente «parlano da democratici, ma vogliono ugualmente vetture di lusso».

Mancano ancora tre anni al primo progetto della Volkswagen, la “vettura del sogno”, come la battezzerà nel settembre 1931 lo stesso Porsche, e manca altrettanto tempo alla nascita ufficiale della Balilla. Tre anni non sono nulla, ma rappresentano il minimo indispensabile perché tramonti, nelle strette della crisi, il concet­to di automobile giocattolo per pochi e si affermi quello dell’automobile come utilitaria.

Con largo intuito, nel 1919, la Diatto produce tre nuove vetture: il Tipo 30, su licenza Bugatti, di 1.452 cc con valvole e asse a cammes in testa, il Tipo 10 HP di 1.018 cc con cambio a tre rapporti più retromarcia, prematuro tentativo di vettura utilitaria, progettato e realizzato negli stabilimenti Gnome et Rhône e il model-lo 25 HP 4 DA e 4 DC di 2.724 cc prodotto, con alcune modifiche del passo, fino al 1922.

Il 13 giugno 1920 si disputa la corsa del Mugello, il circuito toscano è da percorrere sei volte per un totale di 390 km. Partono 24 concorrenti, se ne classificano soltanto cinque. Augusto Tarabusi è secondo su Diatto alla media di oltre 60 km all’ora, alle spalle di Giuseppe Campari su Alfa Romeo. Il 20 ottobre si corre l’XI Targa Florio. Il percorso è quello dell’anno precedente: quattro giri del Medio Circuito delle Madonie, 432 km; al via Peter de Paolo e Peyron su Diatto.

È il novembre del 1920. Da mesi la lotta sindacale conosce uno stillicidio di violenze, i metalmeccanici organizzati nella Fiom (federazione italiana degli operai metallurgici) sono centosessantamila e avanzano, tramite il loro segretario – il riformista turatiano onorevole Bruno Buozzi, un operaio giunto al vertice dell’organizzazione sindacale –, il pacchetto rivendicativo comprendente la richiesta di aumenti salariali fino al 50% per le donne e per gli apprendisti, le ferie pagate fino a 12 giorni l’anno e un’indennità di licenziamento: queste richieste, in sè modeste, cadono in una fase di recessione e le trattative vengono interrotte. Sono cinquecentomila i lavoratori che si asserragliano nelle fabbriche, facendo sorvegliare gli stabilimenti e i macchinari giorno e notte da squadre di guardie rosse.

La gravità della situazione è evidente: «Chi, in questi giorni» – scrive lo storico Morandi –, «si fosse affacciato al passo dei Giovi guardando giù nella vallata della Polcevera e più lontano, verso Voltri, verso Sestri, avrebbe visto sui tetti degli opifici fiammeggianti, nel chiaro sole del mattino, le bandiere rosse del proletariato. E così nella conca di Lecco, vigilata dal Resegone, e così verso Greco milanese, verso Mirafiori, nel biellese e nel bresciano». Ha ragione la tattica di Giolitti e l’occupazione si esaurisce da sola.

Nel 1921 il modello 4 DS, una versione modificata del tipo 4 DC, con caratteristiche prettamente sportive e una velocità di 140-150 km/h, continua la produzione agonistica, che assumerà una connotazione ancora più importante per la Casa automobilistica. Sempre nel 1921 la Diatto decide di riportare la sede sociale a Torino; si imposta una nuova politica, con programmi ambiziosi che prevedono, tra l’altro, l’organizzazione di una squadra corse.

Il capitale sociale viene aumentato a lire 10.000.000, una cifra ragguardevole per l’epoca, che permetterà l’acquisto di diversi progetti da realizzare a breve scadenza.

Nel 1922 la direzione tecnica viene affidata a Giuseppe Coda – ex titolare della Veltro Società Automobi­li, costituita l’anno prima ma sciolta dopo pochi mesi –, il cui unico progetto per la costruzione di un autotelaio di due litri viene rielaborato e realizzato dalla Diatto sotto la denominazione di Tipo 20. Anche questa vettura, insieme alla sua derivata Tipo 20 S, riscuote grande successo su tutti i circuiti, vincendo innumerevo­li corse alla guida dei più grandi campioni come Tazio Nuvolari, Antonio Ascari, il marchese Diego De Sterlich, Emilio Materassi, la baronessa Avanzo, Alfieri ed Ernesto Maserati, Gastone Brilli-Peri, Giulio Aymini, Tarabusi, Ghia, Cesare Schieppati e altri ancora.

Di poco inferiore a 2.000 cc (1.995 cc), il motore a quattro cilindri, fusi in un solo blocco di ghisa con testa riportata, alloggia nella parte superiore i tre supporti dell’albero a cammes che comanda a mezzo di bilancieri le valvole intercambiabili.

Il funzionamento è reso silenzioso da speciali ugualizzatori del movimento, posti sull’albero delle cammes, quest’ultimo comandato, unitamente alla pompa dell’acqua, al magnete, alla ventola di raffreddamento e alla dinamo, dall’albero verticale a mezzo di ingranaggi elicoidali, sul cui prolungamento è montata la pompa dell’olio per la lubrificazione sotto pressione. L’accensione è data da un magnete ad alta tensione, con anticipo a mano sul volante di direzione. Il carburatore è automatico, con comando a pedalino o anche manuale. Il raffreddamento è ottenuto con circolazione di acqua a pompa centrifuga e radiatore con ventilato­re. La frizione, a secco, è composta da un solo disco, con molle multiple sulla periferia dello spingidisco.

Il cambio di velocità è a quattro rapporti e marcia indietro su trains balladeurs, con quarta in presa diretta e leva di comando al centro. La trasmissione è ad albero, con un solo cardano e coppia posteriore, a dentatura spiroidale Greason. Il ponte posteriore è in acciaio stampato. I freni a pedale sulle quattro ruote, quello a mano sulle ruote posteriori o sulla puleggia del cambio. Il telaio in profilato d’acciaio a C da 3 mm si avvale di sospensioni ad assali rigidi, con molle a balestra semiellittiche.

Con la presentazione al Salone di Milano del 1922 della Diatto Tipo 20, progettata dall’ingegner Coda, inizia la stretta collaborazione con i fratelli Maserati, piloti e collaudatori nella preparazione della leggen­daria 20 S. Per accelerare il lavoro in vista delle competizioni al Circuito di Monza, Alfieri ed Ernesto Maserati si trasferiscono a Torino.

È una vettura dalle grandi doti, moderna, affidabile e soprattutto veloce che, alla guida di Meregalli, si distingue il 2 aprile 1922 alla XIII Targa Florio e vince il 14 maggio la Parma-Poggio di Berceto. Due Diatto 20 S vengono schierate alla partenza del Gran Premio d’Italia del 1922, Meregalli vince ripetutamente il durissimo Circuito del Garda – con la 20 motore di serie prima e con la 20 S poi –, Alfieri Maserati è primo al Gran Premio d’Autunno di Monza con una 3 litri. Nel 1923 Tazio Nuvolari corre con la Diatto 3 litri la Parma-Poggio di Berceto e il Circuito di Cremona. Alfieri Maserati trionfa alla Susa-Moncenisio, stabilendo il nuovo record di velocità e all’Aosta-Gran San Bernardo con la Diatto 4,5 specia­le; partecipa inoltre alla XIV Targa Florio su una 20 S 3 litri preserie. Bacini corre il Circuito del Mugello con la Diatto 20 S e Giormelli partecipa al 1º Circuito del Savio al volante di una 20 S con risultati lusinghie­ri. Alle colline pistoiesi, due Diatto 20 S sono schierate alla partenza, rispettivamente alla guida di Luigi Parenti e Gastone Brilli Peri, quest’ultimo primo assoluto.

Nell’agosto del 1923 la Coppa delle Alpi ha, tra i suoi ospiti-partecipanti, il grande letterato e giornalista Arnaldo Fraccaroli che poi, con Sonzogno, raccoglie in volume il proprio diario quotidiano e il fatto contri­buisce – come già accaduto con la partecipazione di Luigi Barzini al raid Pechino-Parigi del 1907 –, a dare popolarità al mito dell’automobile e non tanto dal punto di vista velocistico, trattandosi soprattutto di una gara di resistenza.

Sono le montagne che fanno paura, i luoghi della guerra – Saga, Caporetto, Tomino, l’Isonzo, il Carso istriano –, ci sono i fiumani che colmano i gareggianti di cortesie e i croati che guardano e non salutano. E poi c’è la gran faticaccia, ci si alza alle tre o al massimo alle quattro del mattino, si arrotano ogni giorni 500 km di polvere e di caldo, si sale fin quasi a tremila metri. A Tione ricevono un mazzo di fiori con un nastro tricolore, il saluto delle Giudicarie – dice la scritta –, «per gli audaci corridori a nome delle più garibaldine tra le ridenti valli trentine». Delle 44 partecipanti, ne arrivano 24 e le quattro Diatto fanno la loro figura!

Nonostante la notorietà e i successi in campo sportivo, una forte crisi economica determina la sospensione dell’attività il 5 novembre 1923, proprio quando ambiziosi programmi prevedono l’assunzione di tecnici altamente qualificati e la realizzazione di nuovi modelli di impronta sportiva, che avrebbero dovuto consoli­dare il marchio in campo internazionale. Ma l’impegno forte e appassionato di alcuni soci permette in breve tempo di pareggiare il disavanzo, con l’impiego di capitali freschi provenienti per lo più da facoltosi e affermati titolari di industrie e da abili commercianti.

Così, a metà del mese di maggio del 1924, viene costituita la Società Anonima Autocostruzioni Diatto, con il preciso intento di perseguire i programmi della società precedente che viene rilevata.

In considerazione della sfolgorante vittoria della 20 S a telaio lungo al Gran Premio della Notte-24 Ore di Monza con l’equipaggio Schieppati-Ferretti e della sua brillante prestazione al Gran Premio di San Sebastian in Spagna, con Alfieri Maserati si dà vita, prima fra tutte, alla realizzazione di una vettura da Grand Prix. Alfieri, con l’appoggio del fratello Ernesto, realizza un 8 cilindri in linea, le cui caratteristiche principali sono: alesaggio 65,5 mm, corsa 74 mm, cilindrata 1.995 cc; inizialmente vengono usati pistoni in elektron subito sostituiti con altri in alluminio. La testata smontabile è in alluminio con calotte riportate in acciaio. Il blocco cilindri, anch’esso in alluminio con canne in acciaio avvitate. Le bielle sono tubolari, con due alberi a cammes in testa comandati da ingranaggi cilindrici. Le prime prove vengono eseguite ad alimentazione atmosferica con due o quattro carburatori in bronzo Zenith diametro 16. Il peso del motore è di 156 kg.

Il motore viene installato su un telaio Tipo 20 S e, con questa vettura, Alfieri Maserati vince alla Parma-Poggio di Berceto. Successivamente viene montato un compressore tipo Roots con due carburatori Memini sotto pressione, a valle del compressore.

Con una speciale miscela a base di benzina Avio e una piccola quantità di benzolo, si ottengono potenze dell’ordine dei 150 HP. A fianco di questo importante studio si lavora anche sulla nuova Tipo 30 di 1.995 cc, con un robusto motore a quattro cilindri, valvole e asse a cammes in testa, con una potenza di 52 HP e una velocità di 115 km/h. Sarà prodotta con buoni risultati fino al 1927, anno in cui verrà sostituita dal Tipo 26.

Alla 24 Ore di Le Mans del 1925 quattro Diatto prendono il via, due Tipo 25 e due Tipo 30, vincendo nella classe 2.000 con l’equipaggio Garcia-Botta, che si classifica anche per la prestigiosa Coppa Biennale Rudge Withworth; la 20 S di François Lecot si aggiudica il primo posto alla Corsa di Limonest. Il 6 settembre dello stesso anno avviene l’esordio della Diatto 8 cilindri al quinto Gran Premio d’Italia. Alla guida è l’impetuoso pilota toscano Emilio Materassi che, tre anni più tardi sullo stesso circuito, al volante della sua Talbot, perderà la vita a seguito di un’uscita di strada: tragico incidete, il più grave di Monza, nel quale trovano la morte ventisette spettatori.

La prova della nuova Diatto Grand Prix è significativa e permette sin dall’inizio l’inserimento del bolide nelle prime posizioni ma, a causa del brevissimo tempo intercorso tra il progetto, la realizzazione e le prove, la messa a punto si rivela imperfetta e, nonostante l’impegno del valoroso mugellano, è costretta al ritiro.

Le enormi spese affrontate per la realizzazione di questa vettura e il mancato successo provocano nei dirigenti della Casa una crisi di sconforto, anche perché vanno profilandosi gravi problemi finanziari deter­minati dal dissesto delle industrie tessili dei fratelli Musso, nuovi e importanti azionisti della Diatto. Tuttavia l’impegno delle maestranze permette l’uscita di un ulteriore modello, il Tipo 35, molto simile al Tipo 25 già in produzione, entrambi con motori a quattro cilindri di 2.952 cc, con valvole e assi a cammes in testa, il primo erogante una potenza di 75 HP e una velocità di 135 km/h, l’altro con 70 HP e una velocità di 125 km/h.

Il 21 settembre 1926 Giulio Aymini vince la Susa-Moncenisio con una 20 S stabilendo il nuovo record di auto da turismo. Nel 1927 una Diatto 30 è prima per la classe 2.000 cc e settima assoluta alla 6 Ore di Brooklands.

Sempre nel 1927 vengono allestite per la Mille Miglia due vetture sperimentali 8 cilindri 2 litri con compressore da 160 HP in grado di superare i 220 km orari! La Mille Miglia, una gara d’eccezione, ha la funzione di attirare l’attenzione ammirata del mondo sull’Italia fascista, mettendo in evidenza che – come scrive Gioventù Fascista –, «... le strade italiane sono state restaurate dal fascismo in modo tale da consenti­re, su un percorso che va e torna per mezza Italia da compiersi in una sola tappa, medie di 110 km all’ora».

Quanto detto attesta che «... in Italia la disciplina instaurata dal fascismo è così profondamente radicata che è possibile far passare su 1.700 km di strade aperte al traffico libero, di giorno e di notte, per campagne, paesi e città, un centinaio di macchine in vertiginosa corsa, senza che avvengano incidenti». Si appalesa «... quale vivaio meraviglioso di energie esista nell’Italia fascista, nel campo della scienza, della tecnica, del lavoro, dell’organizzazione, dello sport». Comunque tutto andrà bene tra alterne vicende fino al 1957, anno del tragico incidente ad Alfonso De Portago e la Mille Miglia, che nel frattempo è diventata una delle corse più importanti del mondo, chiude per sempre i battenti.

Sebbene tra grandi difficoltà nel 1927, dopo aver schierato alla partenza di questa magica gara ben quattro Diatto 4 cilindri a 4 valvole in testa e le due 8 cilindri sperimentali, viene presentato al pubblico il Tipo 26 di 2.632 cc, erogante una potenza di 70 HP e una velocità di 140 km/h. È l’ultima creazione in serie di questa grande Casa, che negli anni seguenti si troverà in gravissime difficoltà economiche fino a quando, nel 1931, sull’orlo del fallimento, chiederà il concordato preventivo.

Eppure, il momento politico del 1928 e 1929 dovrebbe essere favorevole a un riconoscimento e un potenziamento del “prodotto italiano”: il 1928 è stato complessivamente triste e perfino cupo, segnato pro­fondamente dalla catastrofe del dirigibile Italia di Umberto Nobile, che si abbatte sul pack del Polo Nord il 25 maggio e dall’attentato a re Vittorio Emanuele alla Fiera di Milano il 12 aprile.

Ma il 1929, almeno nella sua prima metà, si annunzia con auspici più lieti e con la speranza di una normalizzazione, almeno apparente, della vita sociale: nel febbraio, la Conciliazione tra Stato e Chiesa segna un punto a favore di Mussolini, che se lo vede confermare il 24 marzo nella tornata elettorale a scheda unica.

La stretta monetaria, annunziata dallo stesso Mussolini a Pesaro il 18 agosto 1926, sembra allentarsi e quasi sparire, senza alcun preallarme di quel cataclisma che, scoppiando in America nell’ottobre, investirà di lì a poco l’Italia e il mondo intero.

Il concordato preventivo passa in giudicato il 29 ottobre 1931 e, l’anno successivo, la Diatto viene rilevata dal suo direttore della produzione, il cavalier Carlino Sasso, il quale provvede a risanare l’azienda producendo parti di ricambio per automobili Diatto, oltre che gruppi elettrogeni, motocompressori, motopompe e perforatrici pneumatiche.

Il mondo sta incamminandosi velocemente verso lo stesso concetto che l’automobile, come prodotto più carico d’avvenire, anticipa e prefigura. Stanno arrivando le masse, i prodotti per le masse, in un certo senso anche l’oppio per le masse, che hanno bisogno di dimenticare le tristezze della crisi, le latenti inquietudini di un sottofondo europeo che ribolle con sinistri presagi.

Sono già di massa, nel dicembre del 1930, i dodici idrovolanti di Balbo che percorrono i 10.400 chilome­tri tra Orbetello e Rio de Janeiro, ed è già di massa il cinema con i suoi “telefoni bianchi”.

Sono di massa le vacanze, con l’apparire dei primi “treni popolari”, e divengono di massa anche avveni­menti per solito contenuti tra le pareti di auguste o importanti dimore: con grande fasto pubblico e intere pagine di stampa si sposano nel gennaio del 1930 i principi Umberto e Maria Josè, e il 24 aprile Galeazzo Ciano con la figlia di Mussolini, Edda, il cui nome viene fulmineamente accaparrato da migliaia di neogenitori e attribuito ad altrettante ignare neonate.

Seguono per la Diatto dieci anni di prosperità con le nuove produzioni non automobilistiche, mentre alcuni gentlemen drivers continuano a partecipare alle competizioni fidando nella possibilità di reperire i pezzi di ricambio delle loro automobili che la Casa non ha mai cessato di fabbricare.

Poi, il buio della guerra. Un ritorno alla costrizione di nuovi modelli di vetture viene tentato, ma senza successo, alla Diatto nel 1945 e tutti gli studi per conto della Società Galileo rimangono allo stadio di puri progetti cartacei, senza alcuna iniziativa.

Nel 1955 la Diatto viene incorporata dalla Veglio & C. SpA e cessa di esistere, sotto ogni forma, nono­stante un palmares di oltre 500 successi conseguiti in tutti i circuiti del mondo. Grande è il rammarico dei numerosissimi clienti e appassionati che, nel corso degli anni, hanno saputo apprezzare e amare gli svariati modelli in produzione, le cui caratteristiche generali, dalle elevatissime qualità tecniche e agonistiche, al-l’eleganza e alla distinzione della linea, collocano questa grande Fabbrica con una storia di 120 anni tra i giganti dell’automobilismo.

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Realizzazione